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La doccia

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     La doccia. Protesto vivamente contro l’impossibilità d’un uomo accasato di fare una semplicissima doccia. Essendo io dotato di una vista non robusta e di robusti occhiali, non appena entro in doccia, con l’assenza di essi (vista e occhiali), smarrisco ogni altro senso: dall’olfatto all’udito, al tatto, al gusto. Inizia una tremenda Odissea: entrato in doccia, novello Tiresia, trovo sistematicamente il doccino, mobile, come si usa nelle case moderne, ricche di comfort, di fitness e di altre diavolerie simili, a livello inguinale. Mi domando: condivido il mio impulsivo cuore con un nano del Circo Barnum, che mi arriva all’ombelico? No: eppure, il doccino è sempre sistemato a 90 cm da terra. Da cieco totale: snoda il perno mobile del doccino, risistema il doccino a 2m da terra, riannoda il perno mobile del doccino, chiama il fabbro dell’Ikea, a mezzanotte, fissa il doccino all’altezza desiderata, e, dopo 22 minuti esatti, apri, senza riflettere, la manopola dell’acqua. Le donne – a differenza dei gatti- hanno sacro terrore dell’acqua fredda e un amore viscerale dell’acqua bollente. Quindi, accesa la manopola e fregato dai soliti tre minuti che ogni moderna caldaietta ci mette a trasformare l’acqua in oro fuso, sempre senza occhiali, condivido con massimo stoicismo la sorte dell’aragosta, cotta viva; bestemmio, mi agito, ritrovo la stramaledetta manopola, cercando, contemporaneamente, di stare lontano dal getto d’oro fuso (cosa molto difficile quando le tue dimensioni corporee aderiscono, quasi esattamente, all’estensione della doccia), e, reazione pavloviana, ruoto violentemente la manopola al contrario, a momenti alterni, subendo una serie di docce scozzesi: oro fuso, neve, oro fuso, neve, oro fuso, neve, finché non riesca, senza uso della vista, a ricentrare sul tiepido/fresco. Mi è venuta l’idea di incollare detta nefasta manopola col silicone: la dolce metà, che rende le mie docce una sauna finlandese, strillerebbe, arrabbiandosi. Sistemata la temperatura dell’acqua, il dramma: dieci tra flaconi, boccette, barattoli, vasetti, giare e containers. E, chiaramente, nel mio caso, da scegliere bendato. Procedo a tentativi: trovo e avvicino al viso un Cashmere moments creme oil bath fragranza di orchidea, che, non essendo io un’ape, rimetto su uno dei dodici scaffaletti doccia Ikea; ritento con un Ritual relax con essenza di lavanda e patchouli, a quattro azioni, come le Balilla a quattro marce, «rilassante, emolliente (?), protettiva e riequilibrante»: non volendo emollermi, e diffidando del patchouli, ristocco a scaffale; il terzo tentativo me lo gioco con due confezioni uguali, stesse dimensioni, stesso colore, stessa forma: Elvive Fibralogy balsamo creatore di spessore e Elvive Fibralogy shampoo creatore di materia (!!!). Elvive Fibralogy shampoo creatore di materia? Roba da scatenare una fusione nucleare in doccia, mettendo a ferro e a fuoco il “famoso” tunnel che unisce Cern e Gran Sasso: sentendomi un uomo di spessore e avendo timore di correre il rischio di sperimentare lo shampoo creatore di materia, rinunzio ad entrambi. Poi, in ordine, due tubetti: Vetiver di Java (o di Fava) shampoo & shower gel e Giardino dei sensi for men ai legni mediterranei doccia shampoo: il Vetiver di Java (o Fava) mi sembra una cosa troppo metrosexual: troppo forte il timore di uscire dalla doccia con i peli del petto e del sedere arrizzati, come i capelli di Ozzy Osbourne da giovane, da fonare o stirare; il doccia shampoo ai legni mediterranei (?), cioè all’acacia, all’olivo, all’uva, al mirto, no, essendo a ferrea dieta anti-mediterranea. Prendo il muletto, e ristocco entrambi a scaffale. Infine, una boccetta: Camomilla Shulltz, shampoo rilassante su capelli troppo vivaci: i miei capelli, se s’addormentano, tendono a non riuscire a stare aggrappati al cuoio capelluto, e a cadere: non è roba mia, benché, sottolinei, la camomilla sia bio: sarà di Ambra, che ha capelli sempre svegli. Restano due alternative: il balsamo/shampoo all’estratto di nutria e il Baygon. Preferisco, masarato, uscire dalla doccia, a tentoni, cercare il sapone di Marsiglia dei panni, e, reperitolo, rientrare in doccia, strofinandomici selvaggiamente corpo e capelli: la mia cute, abituata ai colpi d’arma da taglio delle partite amatoriali di calcetto, non si scompone, è avvezza al rude. Le donne, tra loro, di norma si lamentano: «mio marito / compagno / fidanzato riduce il bagno all’affondamento del Lusitania dopo un siluramento da Uboot tedesco» (esplicitato con voce nasale, sdegnata, rassegnata). Ci sono, in realtà, una serie di motivi, tutti validi, a giustificare l’onda anomala, come: saltare, nella doccia, fino a regolare l’acqua, muovere un muletto e stoccare containers di doccia-bagno-shampoo-schiuma, uscire a cercare il sapone di Marsiglia. Ignorando sprezzantemente l’arsenale di spugne, spugnette, spugne attaccate a corde, spugne attaccate a bastoni, spugne attaccate a chiodi, grattugie da formaggio, tritacarni, che rendono una normale doccia casalinga molto simile al retrobottega di un negozio vintage sadomaso, e attentissimo ad evitare di afferrare il rasoio, adagiato su una spugna di seta tempestata di diamanti (rende le nostre giovani metà assolutamente morbide al tatto e rischia di incrementare la dose di Scarface che è in noi), servendomi di acqua e sapone, come nel medioevo, mi faccio una doccia celere, cantando a squarciagola stupidi motivetti, felice di essere sopravvissuto, ancora una volta, alla famigerata doccia trimestrale [in realtà, l’uomo si trova maggiormente a suo agio nelle docce dei campi sportivi, dove è in grado di, in ordine cronologico: camminare senza ciabatte, scroccare il bagnoschiuma usandolo anche come shampoo, darsi schiaffoni e spruzzarsi acqua, non asciugarsi, vestirsi bagnati, senza controllo di nessuno]. Il che è bello e istruttivo. 

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